Il fuoco non si spegne, a 62 anni il cronista urbinate di Giudiziaria saluta la casa madre ma è pronto per nuove avventure. “Il giornalismo è un’esigenza, non un mestiere”.
E’ un momento difficile e non lo nasconde. Domani sarà l’ultimo giorno da redattore al Resto del Carlino Pesaro. Era entrato a 26 anni, se ne va a 62, un numero rovesciato che è quasi un segno del destino. Roberto Damiani nasce a Urbino da una famiglia operaia e la sua storia è d’altri tempi, un po’ come lui, e vale la pena raccontarla. Anzi, merita di essere raccontata.
“In realtà sono nato e torno spesso a Canavaccio di Urbino, lungo la vallata del Metauro. Giocavo a calcio in Terza e Seconda Categoria nella squadra del paese e riportavo la cronaca delle gare che avevo appena giocato. Scrivevo a macchina e appendevo il foglio nei bar, mi davo anche i voti”.
Un giornalismo <primitivo>.
“Avevo dentro una passione da buttar fuori, l’avevo individuata a 16 anni. Poi mi sono diplomato e iscritto alla scuola di Giornalismo a Urbino. La conoscenza della materia e mi è servita anche se lì non aveva possibilità di sviluppo. Così ho lasciato l’istituto e mi sono dedicato alla facoltà di Sociologia a Urbino, indirizzo Scienze della Comunicazione, al ritorno dal militare. Nel 1984 ho collaborato con il Carlino Urbino, ma c’era già un altro corrispondente che mi ha esplicitamente detto di non perdere tempo e cambiare aria: il capo era Paolo Nonni, che ritroverò poi. Iniziai al Messaggero, che cercava persone dalla città ducale, lavorai anche a Radio Urbino Montefeltro, una bella palestra, e a Tele 2000”.
E poi la svolta della carriera.
“Nell’ ’88 partecipai a una borsa di studio nazionale per il Carlino, c’erano 25 posti e passai. Sono arrivato a Bologna per frequentare tre mesi di corso, mi sono diviso tra le redazioni di Pesaro, Perugia, Bologna, Gorizia, Amburgo, Siena e di nuovo Pesaro, dove il 1° aprile (e non era uno scherzo -ndr) del 1990 sono stato assunto da Paolo Nonni, che mi ha insegnato tutto. Mi sono occupato della cronaca di ogni tipo”.
Domani sarà il su ultimo giorno dietro la scrivania di Viale Manzoni. Ma ha chiuso il suo pezzo di congedo con un “Arrivederci”.
“C’è questa legge che permette agli editori di mettere in prepensionamento i propri giornalisti in caso di crisi. Ma io, sapendo fare solo il giornalista, continuerò a farlo. Sono pronto alla prossima sfida. Vedremo dove, come e quando, farò consulenza editoriale. Il giornalismo è un’esigenza, non un mestiere”.
La si è sempre identificata con la Giudiziaria.
“Mi ha coinvolto molto. Ho cercato di rappresentare la vita attraverso le aule di tribunale, di aprire le porte piuttosto che lasciarle chiuse, di far entrare la democrazia. Essere al Palazzo di Giustizia ogni giorno è la regola per chi svolge questa professione”.
C’è un articolo del quale va più orgoglioso?
“No, ma ricordo benissimo un evento gravissimo, l’omicidio di Melania Rea. Essendo a Pesaro non sarebbe stato il mio territorio, ma una sera il giornale mi chiamò dicendo che la mattina dopo sarei dovuto andare al funerale della donna a Somma Vesuviana, sotto Napoli. Volevano un cronista di giudiziaria per capire le dinamiche che ci sarebbero potute essere. Mi accorsi subito che c’era qualcosa che non andava tra la famiglia. Rimasi anche il giorno seguente (c’era un circo mediatico)”.
Ebbe un’intuizione.
“Alle 6.45 mi presentai al cimitero dove Melania era sepolta, trovai il padre che mi disse che sospettava del genero e quell’intervista che mi concesse in esclusiva scompaginò tutto. Da lì in poi ci si orientò con le indagini su Salvatore Parolisi. Feci pure interpretare l’intervista del Carlino a due attori, che rappresentavano il papà e il sottoscritto”.
Se ne è andato lasciando ancora una volta il marchio.
“Reputo molto importante l’inchiesta condotta a Pesaro dal titolo “Affidopoli”, dagli sviluppi ancora incerti ma che ci saranno. Ha messo in luce ciò che avveniva e non in maniera chiara. L’ho portata avanti con la collega Antonella Marchionni: è la dimostrazione di quanto sia davvero fondamentale aprire le porte, anche se le tengono chiuse”.
Per chi non la conosce e per il suo ruolo tende ad apparire duro, spietato, ruvido. E’ così anche fuori campo?
“Non ho mai partecipato alle tavole e ai banchetti dei <potenti>, non ho mai condiviso un gruppo. La mia estraneità, anche geografica, mi ha dato un grandissimo vantaggio. Arrivo sulle cose a foglio bianco, cerco di dare rappresentanza alla verità, il giornalista deve essere pronto a dire le cose e a cambiare opinione. La buona fede deve emergere e ognuno avere la possibilità di dare la propria versione”.