Svanisce il mito evocato da don Giovanni Carnevale: un lungo percorso che ha varcato i confini nazionali
Eginardo, che fece l’esatta cronaca della sua vita, essendone contemporaneo, ci ha illustrato le glorie ed i successi del grande re, poi imperatore, ma ci ha raccontato anche dei suoi peccati, delle sue manie, e delle sue debolezze: la debolezza più grande l’aveva per l’arrosto di cacciagione, debolezza che lo condusse alla morte; tra le manie, la più singolare era quella di fare il bagno nell’acqua calda termale in compagnia dei suoi servi e dei suoi vassalli, a volte cento persone; tra i peccati, quello più rinomato era di avere figli anche da amanti, un peccato che alla sua epoca era lecito e naturale commettere quando si era qualcuno.
Carlo, del fu Pipino il breve e di Berta, definito Magno dallo stesso Eginardo, regolò magistralmente il suo impero con numerosi capitolari: dette regole in ogni settore, creò le classi dei vassalli, dei valvassori e dei valvassini, dei comites in loco, dei giudici e dei fattori: una ripartizione di poteri a piramide, facenti capo tutti, al culmine, all’imperatore, destinata a rimanere per secoli, anche quando l’impero di sfasciò e si suddivise in regni.
Carlo era un re Franco, il suo centro di potere ammnistrativo e giudiziario è sempre stato considerato dagli studi storici ufficiale ad Aquisgrana, nel cuore di quella che era allora la Francia media, l’attuale land tedesco Nord Reno- Vestfalia.
Trent’anni fa un colto sacerdote di nome Don Carnevale, che i detrattori chiamano prete, ebbe una folgorazione e ritenne, in base a studi protrattasi nel tempo e illustrati in una quindicina di libri, di poter dimostrare che Aquisgrana (Aachen) doveva identificarsi in San Claudio di Corridonia, che Urbisaglia era stata per due secoli l’antica Roma sede dei papi, e che l’imperatore morì e fu sepolto proprio in San Claudio: mentre suo padre Pipino riposa a San Ginesio e Berta (da cui contrada Berta tra Treia e San Severino) fu colei che permise la fondazione della abbazia di Rambona mediante sue donazioni. Insomma, una famiglia dimorante in questa parte della Marca che, secondo Don Carnevale, allora si chiamava Francia.
Don Carnevale non costrinse mai nessuno a credere alla sua storia, una narrazione parallela, frutto di libero studio e libero pensiero; ma con rigore didattico, anche se fondato su singolari interpretazioni, e lasciato in eredità ai suoi discepoli, dette la possibilità a tutti i suoi lettori di prenderne atto e di crederci o non crederci.
In ogni periodo sono vissuti personaggi che si sono messi di traverso nei confronti del saputo e risaputo protocollare, trasmesso per secoli nello stesso identico modo, e garantito come vero da persone di alta cultura; e sempre tali personaggi “diversi” sono stati messi all’indice dalla scuola di pensiero ufficiale, dal potere culturale dominante, dallo schematismo che insegna che la storia si fonda su documenti, e che narrazioni diverse sono solo frutto di (pericolose) fantasie.
Nel maceratese sono stati addirittura organizzati convegni, con illustri relatori, per mettere alla berlina le teorie e le narrazioni di don Carnevale; ed i suoi discepoli, che hanno pensato di onorarne l’opera e la memoria dandovi continuazione, sono stati oggetto di dileggio e catalogati come poveri idioti: e non solo idioti, ma anche pericolosi idioti, per lo scandaloso vulnus inferto alla storia ufficiale.
Scrivo questo perché ho letto che in questi giorni i discepoli sono stati cacciati dal tempio, e si è rinfocolata la campagna di detrazione nei loro confronti: avevano allestito – naturalmente previo permesso – una sala mostra al piano superiore di San Claudio, ne avevano fatto meta turistica grazie alle teorie di Don Carnevale, vendevano libri e gadget a chi li desiderava, promuovendo l’immagine della chiesa e del piccolo territorio che la circonda.
Dicono che tutto ciò desse fastidio ai residenti, e qui – per rispetto a quella comunità perché non so come stessero le cose – non entro in merito.
Vedremo cosa subentrerà alla demolizione dei cartelli che indicavano la presenza di Carlo Magno a San Claudio, e al triste e dolente sgombro del piano superiore della chiesa, una chiesa ora declassata alla categoria di tutte le altre, e non più la chiesa e la reggia del Grande Imperatore.
Dovrebbe finire qui, sepolta e soffocata nel nulla da un potere culturale che non transige, e/o da una insipienza di carattere pop, la narrazione di don Carnevale, una narrazione che – anche se non aderente alla storia e ai suoi documenti ufficiali, ed anzi proprio per questo – si rivela sicuramente accattivante e poetica, un canto omerico in onore di un Imperatore, quale eroe protagonista della canzone, intesa a sublimare un segmento di quel territorio che tutti abbiamo nel cuore.
Se riuscissimo a collocare don Carnevale ed i suoi discepoli in questa dimensione, dovremmo solo rallegrarci di questa suggestiva storia parallela, che ha una sua dignità di ricerca ed un suo linguaggio, opinioni liberamente espresse (e liberamente condivisibili) che non portano danno e pericolo per nessuno, storia parallela classificabile alla peggio come una Chanson de geste in prosa del ciclo carolingio, che ravviva la monotonia del normale e del già saputo, e che si dovrebbe valorizzare in ogni modo possibile invece di ucciderla.
Mi fa molto piacere che il sig. Riccardo Meschini, pasticciere in Corridonia, a fronte dell’imbarazzante escomio, abbia messo a diposizione dei discepoli di don Carnevale un locale sopra la propria attività, cogliendo con intelligenza l’importanza culturale e turistica della cosa.
Luciano Magnalbò